Lettera rebus

lettera rebus

Signore,

Voi mi chiedete s’io consenta alla ristampa di certa mia lettera indirizzata, sul finire del 1831, al re Carlo Alberto. Ogni cosa ch’io pubblico è, il dì dopo, proprietà dei lettori, non mia; e ogni uomo può farne, nei limiti dell’onesto, quel che a lui più piaccia. Bensì, mi dorrebbe ch’altri interpretasse l’assenso siccome consiglio. Provvedete cortese a questo, e mi basta[1].

Io non credo che da principe, da re o da papa possa venire oggi, nè mai, salute all’Italia. Perchè un re dia Unità e Indipendenza alla Nazione si richiedono in lui genio, energia napoleonica, e somma virtù : genio per concepire l’impresa e le condizioni della vittoria; energia, non per affrontare i pericoli che al genio sarebbero pochi e brevi, ma per rompere a un tratto le tendenze d’una vita separata da quella del popolo, i vincoli d’alleanze o di parentele, le reti diplomatiche e le influenze di consiglieri codardi o perversi: virtù per abbandonare parte almeno d’un potere fatto abitudine, dacchè non si suscita un popolo all’armi ed al sacrificio senza [p. 4]cancellarne la servitù. E son doti ignote a quanti in oggi governano, e contese ad essi dall’educazione, dalla diffidenza perenne, dall’atmosfera corrotta in che vivono, e, com’io credo, da Dio che matura i tempi all’Era dei Popoli.

Nè le mie opinioni erano diverse quand’io scriveva quella lettera. Allora Carlo Alberto saliva il trono, fervido di gioventù, fresche ancora nell’animo suo le solenni promesse del 1821, tra gli ultimi romori d’una insurrezione che gl’insegnava i desideri italiani e i primi di speranze pressochè universali che gl’insegnavano i suoi doveri. Ed io mi faceva interprete di quelle speranze, non delle mie. Però non aggiunsi a quelle poche pagine il nome mio. Oggi, se pur decidete ripubblicarle, proveranno, non foss’altro, a quei che si dicono creatori e ordinatori d’unpartito nuovo, che essi non sono se non meschinissimi copiatori delle illusioni di sedici anni addietro e che gli uomini del Partito Nazionale tentavano quel ch’essi ritentano, prima che delusioni amarissime e rivi di sangue fraterno insegnassero loro di dire ai concittadini: Voi non avete speranza che in voi medesimi e in Dio.

 

Vostro

Gius. Mazzini.

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