“Il capitalismo, la bicicletta e la felicità della decrescita”. di Alessandro Berlese

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Il capitalismo è un po’ come andare in bicicletta, per non cascare bisogna pedalare. A differenza dalla bicicletta però, che serve per trasportare il ciclista dal punto di partenza a quello di arrivo, il moderno capitalismo non ha come scopo di servire chi pedala ma di servirsene. La crescita economica costituisce il fulcro intorno al quale il capitalismo ruota ed al variare della crescita variano l’equilibrio e quindi la stabilità del sistema, che ha come obbiettivo quello di permanere stabilmente. E’ per questo che la previsione della notevole decrescita economica generata dalla pandemia lascia presagire uno squasso epocale. In realtà questo esito non sarebbe proprio del tutto una sorpresa, già da tempo infatti la critica più “filosofica” aveva intuito che in quel complesso sistema che è il capitalismo moderno, globalizzato e altamente finanziario, si annidava un problema strutturale non dappoco e cioè che ha cessato di essere il mezzo mediante il quale soddisfare le primarie necessità materiali ma sia divenuto esso stesso il fine dell’agire e forse dell’esistenza umana.

Una lucida spiegazione di questo tipo di fenomeno è stata offerta da Umberto Galimberti nel suo “I miti del nostro tempo”. Se fu Hegel ad intuire che l’aumento quantitativo di un fenomeno produce una radicale variazione qualitativa fu poi Marx, che di Hegel fu un profondo studioso, ad applicare pari pari quel teorema hegeliano all’economia. Tutti noi consideriamo il denaro un mezzo per la realizzazione di determinati scopi, quali la soddisfazione delle necessità umane e la produzione di beni e di servizi, ma nel momento in cui il denaro aumenta quantitativamente sino a divenire la condizione universale per il soddisfacimento di qualsiasi bisogno e per la produzione di qualsiasi bene, il denaro non è più un mezzo, ma un fine esso stesso in funzione del quale decidere quali necessità soddisfare e quali beni produrre. Secondo Galimberti il medesimo ragionamento marxiano è applicabile alla tecnica e personalmente ritengo che sia legittimo riferirlo anche al capitalismo contemporaneo, che della tecnica è probabilmente l’espressione più impattante nella sfera dell’uomo.

Il capitalismo moderno, da biciletta al servizio dell’umanità, sarebbe quindi divenuto il fine per il quale è necessario pedalare, a costo di qualsiasi sacrificio, vita umana compresa.

Risulta così evidente un corto circuito che, prima o poi, potrebbe condurre a sciagure ancor maggiori delle attuali; tuttavia, in assenza di alternative, non resterebbe che tentare un salvataggio del sistema, coûte que coûte e quindi “coerentemente” giungere a negare la priorità valoriale della vita e della salute umana sull’economia (pulsione peraltro già manifestatasi nel corso della pandemia).

Purtroppo l’effetto più probabile dello schianto di una civiltà che rimane organizzata attorno alle proprie macerie è quello di generare una barbarie, amplificata dalla amoralità della tecnoscienza che sarebbe chiamata a risolvere l’angoscia della perdita di valore dell’esistenza umana; ma questo tipo di considerazioni apparterrebbe alla politica, che non solo non conta più nulla, ma non decide più nulla: lo fa la tecnica, quindi l’economia, che è in corto circuito.

In questo quadro, piuttosto tribolato, esisterebbe forse una via d’uscita alternativa sulla quale varrebbe la pena ragionare un po’. Secondo qualcuno sarebbe infatti possibile coniugare la prosperità dei popoli, con la stabilità politica, la serenità economica con la tutela della biosfera e magari anche felicità individuale con la contrazione economica.

L’idea in questione è quella di Serge Latouche, economista e filosofo contemporaneo, teorico della decrescita felice: ossimoro affascinante. All’esordio questa teoria era forse un dito puntato sulle criticità del sistema capitalistico che, nella sua spasmodica ricerca della impossibile crescita senza fine, aveva generato la globalizzazione del consumismo ed inquinato il pianeta, ma oggi questa apparente utopia offrirebbe una soluzione praticabile, non solo della paventata catastrofe economica, ma anche dei molteplici problemi umani, sociali, etici, culturali ed ambientali che precedevano il coronavirus e che si riproporranno –probabilmente esasperati– dopo di esso.

L’argomento di Latouche non è un immediato progetto politico, ma un ideale filosofico che sposterebbe l’asse della mondo dall’economia all’uomo, conducendolo a riappropriarsi della propria essenza umana e ad abbandonare quella di funzionario di apparato tecnico condannato all’efficienza. Alcuni imprenditori si sono già ispirati al pensiero di Latouche ottenendo consenso e successo, uno esempio per tutti può essere l’idea dello slow food di Carlo Petrini, questo lascerebbe pensare che il percorso individuale ed imprenditoriale di decrescita felice sia possibile, ma sarebbe possibile renderlo anche un progetto politico?

Perché la decrescita felice da teoria economico filosofica possa tradursi in un programma politico sarebbe necessaria un’azione culturale importante e diffusa, tale da consentire la ridefinizione dei concetti di ricchezza e di povertà (ad esempio considerando il tasso di felicità di un popolo tra gli indicatori della sua ricchezza) e la revisione dei valori che tali concetti esprimono, introducendo nell’economia il primato dell’aspetto umano, solidaristico ed ecologico. Sarebbe dunque possibile superare la condizione dell’ “homo homini lupus”? Secondo Latouche sì, ma a condizione che questa via sia il frutto di una scelta consapevole e non di un’imposizione. La cultura della decrescita imprimerebbe un corso diverso alle dinamiche delle relazioni umane. Il modello attuale di società, standardizzata, competitiva, a-storica, a-culturale, a-sessuata, a-etnica che soddisfa la necessità del mercato nel quale il gender-lavoratore-consumatore deve essere corrispondere ad uno standard planetario di prevedibilità e gestibilità verrebbe abbandonato per la valorizzazione della pluriversalità, ovvero della preservazione delle diversità dei popoli nelle quali risiedono le rispettive identità culturali e storiche. Nella decrescita preconizzata dal Latouche non solo i concetti economici sarebbero rivisti e corretti, ma sarebbe stimolata una nuova etica, quella della solidarietà sociale e dell’economia sostenibile; il tempo assumerebbe un diverso valore e contrariamente alla frenesia che scandisce il ritmo nella corsa rettilinea verso un futuro che assomiglia sempre meno ad un futuro umano, il tempo diverrebbe lento, ciclico, destinato anche alla contemplazione, alla socialità ed agli affetti. Un futuro umano insomma nel quale l’enorme bagaglio tecnologico e scientifico, sin qui accumulato, sarebbe impiegato per facilitare e gestire la decrescita economica e ad assicurare il maggior tasso possibile di felicità umana. Non conosco quale sia l’idea della Chiesa cattolica sulla decrescita ipotizzata da Latouche ma sarei curioso di conoscerle: prima facie apparirebbero delle consonanze con le tesi dell’Enciclica “ Laudato si’ ” dalle quali potrebbe originare un pensiero di una potenza e di una modernità dirompenti. Certo è che se l’uomo fosse realmente capace di asservire la prodigiosa capacità della tecnica per procurare ciò che è abbastanza per tutti, forse non subirebbe la perdita del superfluo come un male, ma come una scelta consapevole di necessaria sobrietà e responsabilità sulla quale si fondano la pace ed il progresso sociale.

Paradossalmente questo momento drammatico potrebbe avviare un percorso migliorativo per la specie umana ma la precondizione è che siano la cultura e la sensibilità umanistica a dettare le priorità alla politica ed a individuare l’exit strategy; se viceversa prevalessero le logiche di tutela dell’ancien regime ad ogni costo, temo che tempi ben grami ci possano attendere, grami e barbari. Non possiedo certamente io la soluzione al problema del futuro dell’umanità e forse nemmeno Latouche la possiede, ma prima o poi dovremo impegnarci a cercarla e forse sarebbe il caso di iniziare partendo da un punto sul quale credo che possiamo essere tutti d’accordo: dal momento che la decrescita economica è inevitabile, è di gran lunga meglio sceglierla e pilotarla improntandola alla sostenibilità ed alla felicità umana anziché subirla come uno schianto brutale e distruttivo. Chissà se lo schiaffo metafisico che ci ha assestato la recente pandemia ci indurrà a scommettere che possa valere la pena riscoprici umani e magari a pedalare, fischiettando e a ragion veduta.

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