RESPONSABILITÀ? NO GRAZIE.

Illustrazione articolo 1 modificataCosì, è successo di nuovo. Un altro bambino, il sesto dal 1998 in Italia, è morto in maniera atroce, dimenticato nell’abitacolo di un’auto arroventata. Senza rievocare gli agghiaccianti particolari di cronaca, né indulgere ad affrettati pietismi oppure a condanne draconiane, spostiamo l’obiettivo alle ore e ai giorni successivi, agli inevitabili commenti che si sono appiccicati alla notizia.

Da ogni dove ma soprattutto, incredibile a dirsi, dai genitori, si alza non solo la richiesta (comprensibile) della pietà ma soprattutto la pretesa, dura e perentoria, di “non giudicare”. Di fronte a questa disgrazia non bisogna pensare nulla e non bisogna dire nessuna parola differente dalla commiserazione e dalla preghiera, perlopiù quella nuova preghiera “laica” che non viene mai pronunciata, ma nasce e muore nella sua stessa enunciazione in un messaggio di qualunque tipo. Perché la colpa, o meglio la responsabilità, di quanto avvenuto per quasi tutti non appartiene a quella donna. È successo per lo stress, per il sovraccarico di lavoro, per la società moderna che odia le donne; è successo per l’amnesia dissociativa, per un distacco della coscienza, per il black out della mente; è successo perché la scuola non ha telefonato per avvertire dell’assenza, perché le case automobilistiche non elaborano qualche marchingegno apposito, perché la legge obbliga all’uso dei seggiolini dove i bambini si addormentano. Per qualcuno, più raffinato, è successo per il conflitto tra Es, Super-io e qualche altro fantasma psicanalitico. E quindi, non possiamo emettere alcun giudizio, perché siamo tutti fallibili, e se siamo fallibili la responsabilità, in definitiva, non è mai nostra.

Una sola frase viene ripetuta ossessivamente: “Chi siamo noi per giudicare”? Frase ben nota, già sentita, lanciata come un sasso contro uno specchio, quello che riflette ogni momento la responsabilità delle nostre azioni, la gerarchia che assegniamo loro. L’accudimento di un figlio è diventato un’azione automatica, uguale al prendere le chiavi di casa, al mettere il cellulare in borsa, al timbrare il cartellino al lavoro. Un ingranaggio, come tutta la vita: guai a chi lo ferma, guai a chi insinua il dubbio che dietro ogni azione ci possa essere il cuore, la volontà, l’amore. Oppure, anche se certo non in questo caso, il male. Se non siamo esseri con testa e cuore, ma solo macchine guidate da imperscrutabili e involontari percorsi della mente, allora non si vede perché si dovrebbe giudicare chi rapina un negozio, chi rompe la testa a una vecchietta per rubarle il portafoglio, chi uccide la moglie o il marito o qualunque essere umano. Dopo tutto che ne sappiamo del perché l’ha fatto, di cosa lo ha spinto ad agire così?… Chi siamo noi per giudicare. Questa frase, apparentemente tanto misericordiosa e innocua, sta lentamente disgregando qualsiasi senso di responsabilità e giustizia.

Patrizia Rossetti

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