Fermare la Jihad: l’ultima sfida per l’Occidente

Califfo Isis

Dopo gli attentati di Bruxelles (31 vittime e 250 feriti) e di Lahore (72 morti e 320 feriti) gran parte del mondo civile si chiede se e come sia possibile fermare lo stillicidio di massacri organizzato dalle belve della jihad; chiamare combattenti degli individui che, in altri casi, non hanno esitato a trasformare in bombe umane anche dei bambini di 10 anni significherebbe nobilitarli e legittimarli, attribuendo alle loro azioni valenze che possiedono. Per inciso, questa argomentazione viene sistematicamente contestata negli ambienti radical chic che, invece, sostengono l’assoluta legittimità dei metodi di lotta jihadisti, che vengono classificati come la giusta reazione alle nefandezze commesse dall’Occidente nei confronti del mondo mussulmano.

Senza scendere nel merito delle valutazioni di questi “giustificazionisti” ad oltranza, si deve invece considerare che, visto il numero degli attentati compiuti negli ultimi anni, la “fabbrica del terrore” sembra in grado di colpire quando, come e dove vuole. E’ un’affermazione in netto contrasto con le tesi sostenute da tutti i media che parlano di prevenzione e che, dopo ogni attacco, riversano su governi, servizi di intelligence, forze di polizia ogni sorta di accuse, dall’inefficienza all’ottusità. Senza volere stendere veli pietosi su eventuali discrasie degli organi istituzionali preposti all’antiterrorismo, è bene “mettersi in testa” che il fallimento di un attentato può essere determinato da eventi fortuiti, dall’inefficienza della cellula incaricata dell’azione, da errori dell’attentatore ma, solo in casi abbastanza rari, dai controlli capillari degli organismi di sicurezza.

Per suffragare la validità di questo asserto è necessario percorrere tutta la “filiera” del terrore islamico, dai suoi vertici, i capi, sino alla base, i kamikaze.

I Capi. Secondo la stampa internazionale i vertici del terrorismo islamico sono occupati da due figure emblematiche: Ayman Muḥammad Rabīʿ al-Ẓawāhirī, leader di Al-Qāʿida, e Abū Bakr al-Baghdādī, il Califfo dell’ISIS. Peraltro, si deve tenere presente che in Asia ed Africa operano moltissimi altri gruppi jihadisti del tutto indipendenti; si pensi ai sei cartelli terroristici che infiammano le Filippine, dove solo il 5% della popolazione è mussulmana, all’organizzazione islamica di Boko Haran, che opera nel Nord della Nigeria, ed a tutte le frange salafite attive in moltissimi paesi dei due continenti. Esaminando più a fondo questa galassia si scopre che, a parte Al-Qāʿida, già attiva alla fine degli anni ’90 e con funzioni essenzialmente anti occidentali, la quasi totalità dei gruppi e gruppuscoli jihadisti ha fatto la propria comparsa sulla scena fra il 2005 ed il 2010, per condurre guerre esenzialmente inter arabe.

Sicuramente, al loro debutto non potevano contare su mezzi economici, armamento e proseiliti di consistente entità. Pertanto, chi li ha spinti ad agire, chi ha finanziato le loro attività, chi ha reclutato per loro migliaia di combattenti? Viene il forte sospetto che dietro ai diversi Capi più o meno carismatici, conosciuti e presenti sul campo di battaglia operi una regia occulta che, autonomamente, ha deciso tempi, modalità operative ed ambienti nei quali scatenare la guerra, principalmente  contro altri paesi mussulmani (per ottenere la supremazia nell’area) ed incidentalmente contro il mondo occidentale, adeguando i propri gli obiettivi al mutare della situazione. Un esempio di questa flessibilità operativa è riscontrabile nell’evoluzione della conflittualità libica; nata come lotta fra le diverse tribù che, scomparso Gheddafi, si contendevano il controllo del Paese, si è trasformata in una guerra volta principalmente al possesso dei terminali petroliferi; il cambiamento si è verificato non appena è sorto il pericolo che il disomogeneo appoggio dato ad Assad ed al Governo Irakeno si traformasse in una compatta coalizione anti Daesh. La regia islamica ha provveduto all’apertura di un secondo fronte che, costituendo una minaccia diretta per gli interessi occidentali, soprattutto europei, sta determinando un alleggerimento della pressione in medioriente, dove il peso delle operazioni militari è stato lasciato quasi esclusivamente ai guerriglieri curdi ed all’Esercito Siriano.

I Finanziatori. Il Califfato, pur ricavando ingenti risorse dalla vendita del petrolio estratto nelle aree che ha conquistato, dal traffico della droga (l’Afghanistan ne produce a fiumi), dalle rapine perpetrate ai danni dei non aderenti, etc. non è economicamente autonomo. I gruppi minori versano in condizioni sicuramente peggiori, ma non per questo sono meno attivi e virulenti. Da dove arrivano gli ingenti finanziamenti necessari per “stipendiare” gli aderenti, addestrarli, acquisire tutto ciò che è necessario per farli operare, dare vita all’organizzazione periferica necessaria per supportarli nel corso delle loro azioni, etc.? Secondo voci di intelligence, i finanziatori più attivi dovrebbero essere l’Emirato del Qatar, numerosi autorevoli esponenti dell’aristocrazia e delle banche saudite e, più marginalmente, la Turchia. Indipendentemente dalla loro identità, sembra poco plausibile che la scena del terrorismo sia popolata da “filantropi” disposti a dispensare, con continuità, centinaia di milioni di dollari senza pensare a conseguire obiettivi congruenti con i propri interessi e, quindi, senza indirizzare opportunamente le operazioni. In sintesi, al-Ẓawāhirī e al-Baghdādī potrebbero essere solo i capi delle due principali ali militari di quella “multinazionale del terrore” i cui vertici sono assolutamente sconosciuti.

L’ambiente umano. Dopo gli attentati di Parigi Salah Abdeslam, il “ricercato più ricercato” d’Europa, non si è rifugiato in Siria o a Raqqa ma è tornato a Bruxelles, nel quartiere  di Molenbeek, ed è stato rintracciato per un caso del tutto fortuito. Con ogni probabilità non conduceva una “vita sociale” particolarmente intensa, ma sicuramente non è rimasto permanentemente chiuso nel proprio rifugio; pertanto, come è riuscito a sfuggire per mesi alla miriade di agenti che gli dava la caccia? Grazie all’omertà degli abitanti del quartiere, tutti di provata fede islamica, che, dimenticando ogni disputa interetnica o confessionale, si sono schierati a protezione del correligionario braccato dai miscredenti. E’ un atteggiamento che, purtroppo, sembra confermare la tesi di Magdi Allam, che nega l’esistenza di un islam moderato, e da ragione a coloro che escludono ogni possibilità di integrazione. Appare del tutto ovvio che un mondo così chiuso in se stesso renda estremamente difficile sia l’infiltrazione di informatori sia la comparsa di delatori. Per contro, l’organizzazione periferica che deve fornire il necessario supporto logistico, organizzativo ed informativo agli attentatori può mimetizzarsi perfettamente nell’ambiente umano in cui vive e restare “in sonno” per anni, in attesa dei combattenti che dovranno condurre l’azione.

I “soldati”. Non si sa praticamente nulla delle migliaia di jihadisti che stanno operando solo in Medioriente o in Africa ma che, in ogni momento, potrebbero essere spediti in Europa, anche con una qualsiasi delle decine di barche che giornalmente attraversano il Mediterraneo. Sono leggermente più conosciuti alcuni dei convertiti, gli europei che frequentano abitualmente le moschee e che possono essere solo saltuariamente controllati. Sono più noti, ma non tutti, i “foreign figthers” che si spostano frequentemente in medioriente per addestrarsi, combattere. Peraltro, ove si tenga conto che i loro spostamenti possono essere anche molto “tortuosi”, proprio per depistare eventuali controllori, si può comprendere come spesso la certezza della loro appartenenza a cellule attive possa essere raggiunta solo quando vengono colti in flagrante o dopo che hanno commesso il reato.

Comunque, a fattor comune per tutti i “soldati” operanti in Europa, si possono individuare alcune specificità che sicuramente non favoriscono le indagini:

  • godono della copertura di tutti i “confratelli moderati” sparsi per le città del Vecchio Continente;
  • possono godere di tutte le libertà garantite dai sistemi democratici dei Paesi che li ospitano;
  • i vari iman che predicano nelle moschee africane, mediorientali o europee, sfruttando le intrinseche specificità del pensiero religioso islamico, sono riusciti  a trasformarli in automi, caratterizzati da determinazione e da una nichilistica propensione al martirio.E’ una richiesta più che logica che proviene da una società civile e democratica ma che, purtroppo, si scontra con una realtà che sfugge ad ogni regola razionale. E’ una realtà violenta che, forse, potrebbe essere contenuta distruggendo le sue fonti di finanziamento. Purtroppo è un’opzione che sembra possa  essere attuata solo con rigorose pressioni, probabilmente non solo diplomatiche, su Qatar, Arabia Saudita e Turchia, con conseguenti ricadute assolutamente negative e pericolose nei rapporti con tutto il mondo mussulmano.
  • A questo punto non resta che una conclusione, sicuramente pessimistica: forse, prendendo atto della nostra strutturale vulnerabilità, dovremo adattarci all’idea che, in relazione all’andamento dei rapporti con alcuni paesi islamici, esista per tutta l’Europa la possibilità di essere colpita da esaltati, ansiosi di raggiungere il paradiso e le 72 Hur (le vergini) che attendono gli Shuhada (i martiri).
  • Dopo queste scarne e lacunose considerazioni si può ancora parlare, a ragion veduta, della possibilità di svolgere un efficace opera di controllo e prevenzione?

di Roberto Giacalone

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