Fuga dalla libertà

three-monkeys-1212621_1920Dunque basta un aggettivo infantile, per quanto poco opportuno, a troncare una carriera. Giuseppe Tassi, direttore di Quotidiano Sportivo, firma storica del giornalismo sportivo, vicedirettore del Resto del Carlino, di Quotidiano.Net e di QN, è stato sollevato dall’incarico per volontà dell’editore Riffeser Monti, sotto la spaventosa forza d’urto di migliaia e migliaia di commenti sdegnati, comparsi nei social network dopo che un titolo della sua testata definiva “cicciottelle” tre atlete azzurre in gara alle Olimpiadi di Rio nella disciplina del tiro con l’arco.

La cosa mi suscita inquietudine, lo ammetto, e non solo perché svolgo la stessa professione del collega così fulmineamente silurato. Ma perché mi fa comprendere che il politically correct rappresenta la nuova spietata dittatura mondiale, pronta a sacrificare chiunque, senza appello e senza possibilità di riscatto, ad ogni minima violazione del ferreo codice etico che essa stessa ha prodotto: vale a dire l’intolleranza assoluta per ogni pensiero o parola che devii dalla morale corrente. Morale laica, anticlericale, atea, femminista, animalista, antiproibizionista, ecologista, pacifista, gender e così via. Idee considerate come verità incontrovertibili e intoccabili, nuovo “Verbo Rivelato” che non ammette contraddizioni. L’idolo posato sull’altare sacrificale può cambiare di volta in volta, spaziando in varie categorie di deboli o presunti tali, ma sempre più spesso vi sale la donna, dipinta in maniera, più che contraddittoria, schizoide.

La donna è una creatura forte, più forte dell’uomo; ma la donna è sempre vittima della brutalità dell’uomo, che la stupra e che la uccide. La donna ha le stesse capacità dell’uomo; ma deve ricoprire ruoli importanti nella politica e nella cultura solo perché è donna, non perché ne abbia i meriti. La donna ha gli stessi doveri e diritti dell’uomo; ma l’uomo deve accettare una riduzione dei suoi diritti, per fare spazio a quelli di lei. La donna ha il diritto di non essere bella e piacente; ma la donna è sempre bella e piacente, guai a chi fa anche solo notare il contrario. La donna è una dea da omaggiare, supplicare, temere, ringraziare per ogni cosa; da sostenere, da lasciare libera, da esaltare, da adulare e da proteggere. Soprattutto da proteggere: da chi? Ma dal maschio, che lascia trasparire la sua presunta volontà di violenza, stupro e assassinio da qualunque parola, gesto, espressione, forse sguardo.

Nel web l’aggettivo incriminato (in un’epoca che ha del tutto sdoganato non solo la scurrilità, ma anche la bestemmia) è stato definito, in un delirio collettivo fino a poco tempo fa inimmaginabile, un termine foriero di violenze domestiche, capace di innescare il raptus che porta all’uccisione delle donne, probabile causa di suicidio per depressione. Una testata è arrivata al punto da suggerire un decalogo “anti-sessista” per parlare delle atlete olimpiche, ma in definitiva delle donne in ogni contesto: una neolingua dove sono proibiti riferimenti all’aspetto fisico, all’abbigliamento, all’età, allo stato civile, e dove il genere va menzionato solo quando strettamente necessario.

A questo punto dovrebbe essere già chiaro a tutti cosa c’è in fondo a questa via di fuga dalla libertà che tanto le donne stesse invocano. Dalla libertà di essere viste come belle o brutte, grasse o magre, madri o sterili, colte o illetterate, mogli o fidanzate di qualcuno o di nessuno. C’è il celare la donna-vittima all’uomo-carnefice, nascondendo la fragilità (negata) del suo sesso, per sottrarla al benché minimo presunto abuso, come una bambolina di cristallo. Della donna non si parli come donna, non si noti il suo corpo, non ci si azzardi a fare il più innocente riferimento alla sessualità. “Nascondete le vostre donne dietro una tenda”. In fondo a questa strada ci aspettano il gineceo. E il velo.

Patrizia Rossetti

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